Maurizia
Manfredi
Retrospettiva 1980 - 2009
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Il lavoro di Maurizia
ha conosciuto diverse fasi, tra le quali "Antologica", è un risultato che riprende alcuni elementi di
passato collettivo e personale. Maurizia gioca con la tradizione, eseguendo
dei pezzi "falsi" alla maniera dei grandi artisti integrandoli a
elementi della sua propria pittura. Organizza i frammenti in un contesto più
ampio, realizzando una alchimia di citazioni usa i media della
pittura (carta, tela, colla, pigmenti, catrame, etc.) per disporre nello
spazio-quadro gli elementi di una ricerca archeologica. Precedentemente,
nella serie "Muri e Graffiti", evocava i
muri antichi della sua città, testimoni del passato, che come
in un palinsesto, si cancellavano e si coprivano, in strati successivi,
della rappresentazione del quotidiano. Le "Storie
di Sabbia", i "Giardini di Giotto"e
"Interno con figura" esprimono la sua
visione poetica e onirica della natura immersa in un eterno presente. Recentemente,
ha rilavorato su la tematica di
“Venezia”. Ma soprattutto, ha
sviluppato le sue rappresentazioni poetiche e oniriche nella “Casa di psiche”. |
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Approdo alla “Casa di psiche” Mentre scrivo ho cinquantatre anni ed è l’anno
2008. La serie di opere che fanno riferimento a questo titolo è iniziata,
forse, con i miei quarant’anni. Dico “forse” perché, a ben
guardare, se dovessi riassumere in quattro parole il percorso tracciato a
partire dalla ragazza che sono stata, queste sarebbero le più appropriate.
Già nelle “Storie di Sabbia” degli anni
70/80 compaiono elementi simili a quelli di oggi. In “Muri e Graffiti” degli anni 80 e oltre, erano i
segni e la materia a riprendere il filo rosso e le figure affioranti
preludevano al reperto archeologico, allo scavo, via via meno personale e più
collettivo che mi ha condotto alla serie delle “Antologiche”. C’è stato però un
periodo intermedio: “I Giardini di Giotto”,
riferito ai giardini comunali intorno alla Cappella degli Scrovegni, uno
scarto verso la natura, soprattutto quella architettata dalla ragione ma pur
sempre da me trasfigurata e questa volta dall’uso del colore: la
ricordo come una fase solare e di vertigine.
Proprio in quegli anni ho trascorso lunghi periodi in una
piccolissima isola vulcanica, Linosa, quasi Africa, nei mesi di aprile e
maggio. C’ero io e nemmeno cinquecento abitanti. Avevo scelto una
casetta di “campagna”, così la chiamavano perché distava un
chilometro dal borgo di pescatori nel porto. Nella “Punta” perché
sul finire di un promontorio. Era un parallelepipedo dal tetto piatto, la
tipica casa mediterranea. Aveva anche una scala esterna in muratura che
portava al piano superiore: e stavo lì, minuti infiniti a guardare i volumi e
i rapporti che li legavano. Era spoglia, fatta di niente, con il minimo
indispensabile, ma per me era una reggia, il mio osservatorio. C’era un
abisso a pochi passi, verso ovest: il mare sotto e i pesci, che immaginavo di
vedere, facevano la loro vita ora rumorosa, scura di paura, ora trasparente e
leggiadra. Il sentiero di pozzolana arrivava al limite del dirupo e lo
circondava sino a scendere verso il mare nel lato più basso. Soprattutto al
tramonto con la mia musica preferita nelle orecchie, danzavo sino allo
sfinimento e mi sentivo tutt’una con quella natura troppo intensa per
le mie abitudini cittadine. La dea Madre mi stava vicino, anzi era
l’isola, ero io. Solo dopo anni ho visitato Malta che vedevo in
lontananza ma già sapevo che lì, in quelle isole, ora lontane, regnava la dea
preistorica. Non ho mai camminato così
tanto in vita mia. In un’ora e mezza facevo il giro di tutta
l’isola e nel percorso vedevo meraviglie che solo in parte riesco a
trasmettere attraverso la scrittura. Dopo dieci e più anni spero che la
“zattera orfica”, così la chiamavo, dove il tempo diventava
ciclico, sia ancora quella: dalla natura selvaggia, dalle piccole colline
vulcaniche ricoperte dalla Barba di Giove in fiore, dai muretti di sassi
eretti a fatica per liberare i terreni
e proteggere poche capre, qualche appezzamento coltivato a lenticchie,
a vigneto. Dalle baie smeraldine di pietra vulcanica, ora tagliente, ora
mollemente degradante, ora formata da perfetti pentaedri lisci e lucidi come
ossidiana. Dai dirupi friabili di pietra gialla calcarea a picco sul mare, lì
dove una puzza terribile mi ha trascinata al cospetto di una enorme tartaruga
in putrefazione. Dalle pozzolane che scendono a mare ora grigie, ora nere
incastonate da luccicanti blu d’oriente, ora gialle ocra, rosse Ercolano
e terra di Siena bruciata. Polveri che servono a far pittura. Ricordo i piccoli crateri, le torri di
vedetta abbandonate, i fichi d’india disegnati dal contrasto della
pietra lavica; le Berte, gli altri uccelli di passaggio, le lucertole nere e
lisce, simili a serpentelli; la cernia gigante che un giorno è quasi salita
nella barca del mio amico pescatore che già le aveva dato un nome e sapeva
che lì l’avrebbe trovata. Quando, dopo aver abboccato ed essersi
lasciata a lungo trascinare, essersi lasciata vedere in tutta la sua potenza
e grandezza, magicamente si è staccata per riprendersi la vita. Lui copriva i
tagli nelle mani e la rabbia che porta al pianto. Spero che quel mondo
sottomarino sia ancora così ricco e prospero, ormai quasi tropicale, come lo
sognavo da bambina, come ritorna a visitare le mie notti. Ricordo le carrette
del mare arenate, sventrate tra le rocce un giorno di tempesta, dei cui
passeggeri immigrati senza documenti non restava traccia e ricordo. In quella solitudine non c’era
silenzio: lì ho scoperto che la natura è alquanto rumorosa: ma quali
suoni! Allora immaginavo il fragore,
l’immane sconquasso in occasione della nascita dell’isola, in
epoche remote, quando dal bollore del mare-moto sono saliti i vulcani e con
loro le gialle arenarie a mostrar conchiglie sepolte prima del prima, in un
punto che ritorna nel serpente che si mangia la coda: nell’eterno
presente. Il vulcano avrebbe potuto rigirarsi nel sonno ma il rischio era
remoto. Invece quella notte a Santorini, avvolta nelle tiepide nuvole che
dalla caldera marina serpeggiavano veloci arrampicando tra i dirupi e quasi
sentivo il ribollire delle acque e il terreno ondeggiare……il
rischio pareva trasformarsi in spaventevole realtà. A Linosa non mancavano le
suggestioni, le vertigini però si ridimensionavano alquanto, rimaneva solo la
piacevole sensazione di camminare a qualche centimetro da terra. Quella casa,
quella piccola scatola di mattoni ricoperti di calce bianca con gatti annessi
che ogni anno nutrivo e con cui parlavo e giocavo, con le finestre aperte
alle albe incantate tra le colline fumose e ai tramonti sul mare a segnare la
nostalgia dei giorni passati ma a promettere notti stellate, canti notturni
delle Berte, altri cieli turchini, tempeste, nuvole e
venti……..tutto questo e molto di più ha segnato l’essere
che sono. Così sono nate le Terrecotte della “Casa di Psiche”. |
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